Un separato racconta: “Non riuscivo a guardare nostro figlio senza sentire un nodo alla gola”
In dialogo con i fratelli e sorelle separati, divorziati, e divorziati risposati
Rubrica a cura di Don Giovanni Boezzi delegato dai sacerdoti della Zona Pastorale di Vasto per la Famiglia
Carissimi, continuiamo ad ascoltare ed in questo caso a leggere la testimonianza di Emanuele, dalla storia in generale raccontatoci la volta scorsa, oggi ci parlerà della scoperta di una fede diversa. «Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore. Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spazzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu una folgore, ma il Signore non era nella folgore. Dopo la folgore, ci fu una voce di silenzio sottile. Come la udì, Elia si coprì il volto col mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna» (1Re 11-13).
Se c’è un’esperienza di «deserto», se c’è una «notte oscura» che può conoscere l’animo dell’uomo, per me sono stati quei momenti. Momenti di buio e di solitudine, dove niente può dare sollievo, dove ci si sente incompresi da tutti e che nessuno può in effetti capire fino in fondo, e quando il dolore lascia senza fiato. Sentirsi rifiutati, «buttati via», ritrovarsi senza un’identità, in una situazione di profonda destabilizzazione psico-fisica e di estraniamento dal mondo. Non riuscivo a guardare nostro figlio senza sentire un nodo alla gola. Con tutto ciò, quando qualcuno, credendo di farmi cosa gradita, mi parlava male di lei o mi diceva «poveretto!…», non sapeva quanto mi faceva male.
Ma è allora che in quel profondo silenzio mi sono sentito come liberato da tante cose, da tanti pesi inutili, da tanti rumori dentro e fuori di me, e ho sentito quella «voce di silenzio sottile», quella presenza del Signore accanto a me, che, quando tutto andava bene, non potevo, non volevo sentire. E l’interrogativo della fede, fino ad allora mai del tutto risolto, mi è parso come il bivio fondamentale: da una parte solo un dolore insensato, un male ricevuto e procurato, la fine di tutto; dall’altra, attraverso il dolore, una promessa di vita, di salvezza e, sì, perfino di gioia! Ero stato fino allora un cristiano molto «tiepido», la mia fede si era nel tempo sempre più affievolita. Ero un cristiano «fai-da-te», come si dice; mi ero anche io costruito una fede-bricolage. Io giudicavo ciò che era da conservare e ciò che invece, sembrandomi eccessivo, o repressivo della mia libertà, o non al passo coi tempi, lo mettevo da parte. Mi sentivo un “cristiano adulto”, non capendo quanto vuota e priva di senso possa essere questa espressione. In realtà, la mia fede si era talmente annacquata, che era diventata una fede “omeopatica”: nella mia vita ne era restata una quantità infinitesima, forse una lontana memoria. Iniziavo allora invece a capire che non avevo capito nulla: non si può essere cristiani a pezzi, a rate, o all’occasione, ma finalmente iniziavo a voler prendere tutto intero il messaggio di Gesù che la Chiesa ci tramanda.
E iniziavo a scoprire una fede semplice. Ricordo che ci fu un periodo in cui la mattina prima di andare al lavoro, passavo in Chiesa e mi fermavo ai piedi del Crocifisso. Quello stare lì, il più delle volte senza riuscire a dire e perfino pensare nulla, ha cambiato il mio cuore. In quel buio, in quei miei inferi, ho sentito per la prima volta la presenza concreta e reale del Signore. Questo ha cambiato poco a poco la prospettiva interiore della mia vita. La mia situazione continuava a restare tale e quale, tutti i problemi restavano, nulla cambiava fuori di me, la mia sofferenza restava, ma nello stesso tempo nulla era e sarebbe stato come prima, proprio come dice Isaia 30,20-21: «Anche se il Signore ti darà il pane dell’afflizione e l’acqua della tribolazione, tuttavia non si terrà più nascosto il tuo maestro; i tuoi occhi vedranno il tuo maestro, i tuoi orecchi sentiranno questa parola dietro di te: “Questa è la strada, percorretela”».
Questa esperienza di fede mi ha sostenuto anche nella scoperta di una nuova paternità, più profonda, più consapevole, più responsabile; che, a sua volta, è stata una spinta vitale molto forte. Ricordo quando una volta – erano i primi tempi dopo la separazione – io avevo già dovuto trovare una sistemazione per conto mio, e mio figlio, che allora avrà avuto cinque anni, era con me. Io ero preso dai miei pensieri, mi sentivo piuttosto depresso, e stavo preparando qualcosa da mangiare per noi due, non rendendomi conto di essere osservato. A un certo punto, mi chiese: «Papi, perché hai quella faccia triste?». In quel momento, fu un pugno allo stomaco. Ebbi improvvisamente coscienza di come la visione del mondo che mio figlio si stava costruendo era inevitabilmente filtrata dai miei occhi, dalla mia visione del mondo e della realtà. Lui si rifletteva in me. E io, inconsapevolmente, stavo rischiando di fare la cosa peggiore che potessi fargli: togliergli la fiducia che la vita è sempre una cosa buona. E da allora ho sentito molto forte la responsabilità di dovermi risollevare per lui. Con i bambini è impossibile fingere. Non si trattava, quindi, di mostrarsi sereno, ma di esserlo; non di sembrare rappacificato, ma di vivere realmente in pace; non di mostrarmi fiducioso, ma di esserlo pienamente.
(fine seconda parte)