“Te Deum 2021” di don Domenico
Don Domenico Spagnoli (Omelia del Te Deum 2021) -Parrocchia “S. Maria Maggiore” – Vasto
Fratelli e sorelle,
è una grazia poterci ritrovare nella nostra bella Chiesa per la celebrazione del Te Deum rinnovando una tradizione secolare, arricchita dalla melodia settecentesca che farà risuonare le parole latine dell’antico inno al Dio Trinità. Da dove ripartire questa sera visto che non si fa altro che parlare di virus e di variante omicron? «Te Deum laudamus», «Noi ti lodiamo, Dio, ti proclamiamo Signore…». Potrebbe sembrare forzato ringraziare Dio al termine di un anno come questo; a volte qualcuno si domanda quale sia il senso di un simile dramma, e come ha detto il Papa più volte: “Non dobbiamo avere fretta di dare risposta a tale interrogativo. Ai nostri “perché” più angosciosi nemmeno Dio risponde facendo ricorso a “ragioni superiori”. La risposta di Dio percorre la strada dell’incarnazione…il buon samaritano, quando incontrò quel poveretto mezzo morto sul bordo della strada, non gli fece un discorso per spiegargli il senso di quanto gli era accaduto, magari per convincerlo che in fondo era per lui un bene. Il samaritano, mosso da compassione, si chinò su quell’estraneo trattandolo come un fratello e si prese cura di lui facendo tutto quanto era nelle sue possibilità (cfr Lc 10,25-37). Qui, sì, forse possiamo trovare un “senso” a questo dramma che è la pandemia, come di altri flagelli che colpiscono l’umanità: quello di suscitare in noi la compassione e provocare atteggiamenti e gesti di vicinanza, di cura, di solidarietà, di affetto.” (Papa Francesco, Omelia Te Deum 2020)
Ma questo percorso non può avvenire senza la grazia, senza la misericordia di Dio… Per questo, diamo lode a Lui, perché crediamo e sappiamo che il bene che giorno per giorno si compie sulla terra viene, alla fine, da Lui, viene da Dio. Tante persone di buona volontà, credenti e no, ci danno esempio di umanità virtuosa quando si mettono al servizio dell’uomo credendo nella sua altissima dignità. E tanto bene si è portato avanti in questo mondo in modo eroico.
Vogliamo nutrire la nostra speranza meditando il Te Deum e in modo particolare le ultime parole dell’Inno che recitano: “Soccorri i tuoi figli, Signore/ che hai redento/ col tuo sangue prezioso/ Accoglici nella tua gloria/ nell’assemblea dei santi./ Salva il tuo popolo, Signore,/ guida e proteggi i tuoi figli.”
Come si può notare i versi rimandano ad una richiesta di aiuto rivolta a Dio nella consapevolezza che non è possibile per l’uomo farcela da solo; si fa leva sul valore inestimabile dell’uomo per cui Cristo ha versato il suo sangue. Il canto prosegue non solo invocando la salvezza ma anche una sorta di accompagnamento: “guida e proteggi i tuoi figli”. Cosa ha a che fare con la nostra condizione? Ci ricorda che è fondamentale riscoprire un’invocazione che sa trasformarsi in accompagnamento, nutrimento, guida da parte di quel Dio che non deve essere perso di vista.
I versetti successivi potrebbero farci arrossire, si dice infatti: Ogni giorno ti benediciamo,/ lodiamo il tuo nome/ per sempre./ Degnati oggi, Signore,/ di custodirci senza peccato./ …in te abbiamo sperato/… Tu sei la nostra speranza/ non saremo confusi in eterno”.
Senza dubbio, tutti vogliamo essere salvati dai mali presenti ma difficilmente riusciamo ad incarnare questa seconda parte dei versetti, ossia non riusciamo affatto a benedire il Signore e a lodare il suo nome: con molta semplicità dobbiamo ammettere che non chiediamo al Signore di preservarci dal peccato né riusciamo a ricordare a noi stessi che è Lui la nostra speranza. Eppure l’Inno sembra indicarci la via della gioia: affidandoci a Lui “non saremo confusi in eterno”, ossia non saremo sbandati per sempre, non rimarremo nelle tenebre qui e per l’eternità.
La celebrazione di fine anno quindi ci aiuta da una parte a ricordare il grande privilegio di dare del Tu a Dio e dall’altra ad affidarci costantemente a Lui per superare le tenebre.
Che cosa significa però affidarsi a Dio? Una traccia di risposta la offro attraverso tre parole: ascolto, sequela, attesa.
Affidarsi a Dio esige innanzitutto un ascolto della sua Parola per ritrovare un orientamento di vita. Troppe persone (troppi battezzati) dicono di credere in Dio senza conoscerlo, altri ancora non ascoltano da anni una pagina di Vangelo portandosi quindi dentro una immagine del divino che non ha nulla a che fare con la vita di Cristo; altri purtroppo dicono di essere atei – senza Dio – riferendosi ad un dio che nessun vero credente potrebbe accettare. Molti infatti negano un dio che rifiuterebbe anche un vero cristiano, immaginandolo come uno che gode della morte dell’innocente o che si limita a conteggiare i peccati degli uomini o a mandare delle prove da un trono sui cieli. Ascoltare seriamente la Parola restituisce un volto rispettoso di Dio lasciando sempre l’uomo umilmente in ricerca: l’ascolto diventa fondamentale per il cristiano. Con le parole del filosofo e teologo ceco Tomáš Halík possiamo dire: “Le due forme del cristianesimo conosciute finora vale a dire religio (la perfetta integrazione tra fede e società, come nel Medioevo) e confessio (l’assimilazione della fede a una certa visione del mondo, come nella contrapposizione fra protestantesimo e cattolicesimo), somigliano ad abiti passati di misura a causa della crescita del bambino per cui erano stati confezionati. Nel suo pomeriggio, il cristianesimo sarà sì una religione, ma in un altro senso, quello del verbo latino re-lègere, “leggere di nuovo”. (Alessandro Zaccuri, Il Telologo. Halík: «Credere è un frutto del paradosso», in L’Avvenire del 23/12/2021.)
Affidarsi a Dio significa dunque innanzitutto rileggere, leggere di nuovo, in modo nuovo la propria storia imparando a cercare un senso a ciò che accade nel bene e nel male, cogliendo l’appello a vivere da fratelli e non da nemici, fratelli sullo stesso pianeta Terra, nella stessa nazione in cui c’è bisogno del contributo di tutti, nella stessa Città in cui non possiamo chiudere gli occhi sui problemi degli altri. Per vivere questa dimensione dell’ascolto, ovviamente, occorre dedicare del tempo a Dio e troppi cristiani hanno perso la loro significatività dedicando tempo a tutt’altro; si trova il tempo infatti per passeggiare, per fare sport, palestra, per uscire con il cane, per chattare e navigare su internet ma per fermarsi con Dio, poco o nulla…Dio può aspettare.
Eppure Dio non sarebbe da mettere in contrapposizione con la nostra gioia e la nostra pace, ma come alleato e sorgente del ben-essere: senza nutrire la mia anima di questo riferimento, qualcos’altro pretenderà il posto del Signore senza però poterci nutrire di senso.
Come seconda cosa, affidarsi a Dio però significa anche sequela da adulti responsabili, lasciando da parte sia il fatalismo che il fondamentalismo. Quante sciocchezze si sono dette in nome di una falsa religione in cui l’uomo è stato deresponsabilizzato! Quanti discorsi anche in questi mesi abbiamo sentito in cui molti hanno preferito credere in un destino cieco, in cui una pseudo sacralità doveva evitare i contagi semplicemente attraverso un fideismo ingenuo (mi affido a Dio succeda quel che succeda, Lui mi salverà!). Forse molti hanno dimenticato lo stile dell’Incarnazione che stiamo celebrando in questo tempo di Natale: Dio si è fatto uomo-corpo-carne per esaltare questa nostra natura umana e per ricordare che vivendo bene tutte le nostre facoltà (nessuna esclusa e nessuna da sola) possiamo avvicinarci a Dio. Il Logos si fa carne. Fede e ragione, testa e cuore, anima e corpo vanno messi in gioco insieme perché nulla vada perduto nella sfida contro il male. Il Verbo che si fa carne ci sprona ad usare bene i doni di Dio: la ragione insieme alla nostra dimensione spirituale; il paradosso è che in questi mesi la Chiesa è stata una delle istituzioni che più ha difeso la scienza senza mai assolutizzarla, incoraggiando gli uomini e le donne a dare fiducia a quanti si sono adoperati nella ricerca e nella lotta ad un virus.
Sono sempre eloquenti le parole del martire Giustino, che nel secondo secolo scriveva: “Tutto ciò che di buono i filosofi e i legislatori hanno sempre scoperto e formulato, è dovuto all’esercizio di una parte del Logos che è in loro, tramite la ricerca e la riflessione […] la nostra dottrina è superiore a ogni dottrina umana, poiché per noi la razionalità nella sua interezza si è manifestata in Cristo in corpo, intelletto e anima (II Apologia). La fede insomma non assolutizza una parte dell’uomo ma ci insegna ad avere una visione di insieme e ad imparare anche dalle esperienze negative. Cosa imparare dunque? Che abbiamo bisogno dello sguardo dell’altro, del pensiero dell’altro e dell’altro come limite. Chi non volesse avere limiti, che non volesse frenarsi, chi non volesse contenersi non riuscirebbe nemmeno a vivere e a gustare veramente la vita. La pandemia ci impone un limite personale e nello stesso tempo ci insegna un orizzonte più ampio, fino al fratello più lontano ed abbandonato. La fede e le ragione ci impongono un attenzione ai dimenticati per evitare di ritrovarci alle prese con problemi sempre più gravi.
Un ultima caratteristica dell’affidarsi a Dio è l’attesa, l’attesa di una pienezza e di un compimento che non può esserci qui sulla terra. Il cristiano sa che deve fare la propria parte imparando ancora una volta dalla logica dell’Incarnazione. Le cose importanti si ottengono con la maturazione nel tempo, nelle buone relazioni da coltivare giorno dopo giorno, con lo studio e la ricerca senza illudersi di capire tutto per aver leggicchiato qua e là su internet. In fondo ciò che ci fa maturare e ci da stabilità è ottenuto tramite quei legami solidi coltivati nel tempo. A pensarci bene oggi si parla tanto di web, di rete dimenticando che la figura della rete, di una struttura che tutto connette, “affonda le sue radici nella fede dei primi cristiani, ed è sempre negli occhi di chi sa guardare le cose attraversandone la superficie…l’uomo non è (semplicemente) un individuo in relazione con gli altri – come i nodi di una rete o l’equipaggio di una nave – ma è cellula, parte integrante, membro di un unico corpo, di un medesimo organismo – quando uno si ammala è tutto il corpo che soffre – che è vivo, in movimento, che ha una storia.” (Ufficio Nazionale per la Pastorale delle Vocazioni, Sette parole per accompagnare le vocazioni, p. 7).
Eppure in tutto questo lavorio è urgente riconoscere che la terra non basta a se stessa, la buona volontà non è sufficiente e rimane un di più di senso che rimanda a Dio. Solo riferendoci a Lui ritroveremo il senso del nostro impegno nel quotidiano: sappiamo in fondo di essere chiamati tutti alla felicità, alla beatitudine. “Beato” vuol dire felice e se è vero che la pienezza di senso si avrà nella vita eterna, “la vita eterna non è la vita dopo la morte, ma la vita superiore a qualsiasi tipo di morte (noia, abitudine, dolore…), vita a massima intensità, che non può essere spenta. Quando dico «beato te!» dico a qualcuno che è vivo più che mai, felice. Infatti felice (dalla stessa radice di physis, la natura in greco, ciò che genera) era l’aggettivo usato dai contadini romani per indicare la pianta che dà frutto (arbor felix è l’albero fecondo). Il beato è infatti «con-tento», come dice la parola stessa, è «tenuto insieme», come un bambino in braccio alla madre, egli è in braccio alla vita: ogni aspetto della vita attorno a lui e in lui mostra unità e pienezza. Ma si può davvero esser beati in mezzo alle fatiche e alle sofferenze del vivere quotidiano, adesso, subito?” (Alessandro D’Avenia, Santi subito in Corriere della sera del 1/11/2021). La risposta è sì se ci si apre ad un senso più ampio, nella scoperta di ciò che facciamo in Dio. L’importante è vivere in pienezza ogni giorno sapendo avviare dei processi che accendano vita negli altri e con gli altri. Non tutto sarà realizzato da noi ma saremo beati perché avremo realizzato in Dio, affidando a Lui il compimento.
Forse di fronte a questa prospettiva di beatitudine che sa riconsegnarsi a Dio può assalirci la paura, ma non dimentichiamo che la nostra vita – che lo vogliamo o no – è fatta per essere perduta, c’è solo da decidere per chi. “Non si tratta di fare dei doni quanto di farsi dono. Il punto fermo è fare contatto con la ferita che abbiamo nel cuore, causata dalla paura di non essere amati, non abbastanza, di non essere amabili, non abbastanza, di non essere all’altezza, non abbastanza…Non abbastanza è uno squarcio sul fondo del cuore che non gli permette di trattenere l’amore ricevuto, mai abbastanza” (Ufficio Nazionale per la Pastorale delle Vocazioni, Sette parole per accompagnare le vocazioni, p. 11. ) …in questa ferita Dio può mettere la sua perla preziosa come ricorda il profeta Isaia “Tu sei prezioso, io ti ho amato da sempre” (Is 43,4).
Questa prospettiva dunque ci incoraggia a continuare il nostro cammino scommettendo sul futuro con Dio, affidando a Dio i problemi più grandi di noi, sapendo che anche se non vedessi tutto compiuto nella mia vita la cosa più importante è aver lavorato per la causa giusta e camminato sulla strada che è Cristo. Concludo con un riferimento ad Alessandro D’Avenia che, come proposito per il 2022, incoraggia ad assumere il “prendersi cura degli altri”:
“Natale, credenti e no, è la festa del corpo vero, perché se Dio si fa corpo, il corpo è salvezza, non il corpo digitale, martoriato dalle finzioni pubblicitarie, ma quello vero e fragile di un bambino affidato alle mani degli uomini. La vita è essere gli uni nelle mani degli altri, è manu-tenere: tenére nelle mani e avere mani tènere. A Natale non siamo affatto più buoni, ma ci possiamo ricordare che amare richiede tempo, cioè un corpo vero…Senza il corpo smettiamo di fare esperienza del tempo, cioè di quel limite che da senso alla vita, perché «sentire», in noi e negli altri, di averne poco, ci spinge a prendercene cura. Amare”. (Alessandro D’Avenia, Per un 2022 di corpi veri, in Corriere della Sera del 27/12/2021, p. 29).