“Mi alzerò, andrò …”
Vangelo in Arte con don Gilberto Ruzzi: Santa Maria Arabona III
Il linguaggio simbolico fa uso di un alfabeto multiforme, che trae ispirazione da tutti gli ambiti del vissuto e della realtà in cui l’uomo affonda le sue radici umane, spirituali, culturali.
I cristiani, oltre che a decorare i propri luoghi di culto, rendendo bella e accogliente la “stanza alta della Cena”, per far sì che tale spazio liturgico “parlasse”, si sono dotati di elementi ed immagini simboliche, in alcuni casi didascaliche, comunque che fossero capaci di esprimersi in un linguaggio non verbale, in grado di dire l’indicibile, la realtà che sta oltre, facendo segno alla Gerusalemme celeste che viene da Dio.
E se talvolta questo linguaggio è stato mutuato dal mondo vegetale, come abbiamo già avuto occasione di vedere la scorsa settimana, prendendo a modello anche stili e forme dell’antichità classica greco-romana, in taluni casi si è servito di riferimenti a quello animale, qualche volta quello reale, qualche altra, diciamo così, a quello fantastico, attingendo ai bestiari medievali che raccoglievano animali veri e inventati, attribuendo loro proprietà e significati diversi che ne giustificavano la presenza sui portali delle chiese, sui capitelli, tra le decorazioni che accompagnavano e sovrintendevano alle liturgie.
Anche a Santa Maria Arabona, nella quale torniamo per la quarta domenica consecutiva, seppure in forma molto contenuta, troviamo un piccolo bestiario costituito da animali reali, come cani ed uccelli, che animano alcuni elementi architettonici dell’abbazia. Pochi e molto contenuti, – una chiesa cistercense non poteva accogliere elementi che distraessero i monaci dal loro compito primario, l’incontro con Dio nella preghiera, – soprattutto gli uccelli si nascondono tra il fogliame dei capitelli o tra i racemi della vite che decora la colonna del candelabro del cero pasquale. In una mensola della cornice del presbiterio troviamo anche un’aquila, probabilmente simbolo del potere imperiale, ma per la maggior parte possiamo leggerli come rondini. Tra tutti gli uccelli, con il loro movimento migratorio, esse sono state interpretate come il simbolo del peccatore penitente che torna a Dio, proprio come il figlio della parabola lucana che ascoltiamo in questa Domenica “laetare”.
C‘è un particolare dell’iconografia avicola che troviamo qui ad Arabona, come in tante altre chiese nelle quali è usato questo linguaggio simbolico: gli uccelli si stanno nutrendo. Nascosti o svolazzanti tra rami e foglie beccano da frutti che possono essere grappoli d’uva o di genere non meglio identificato. Il loro ritorno è segnato dal cibo, dal nutrirsi. Il riferimento eucaristico, soprattutto nel candelabro, è abbastanza evidente, ma va evidenziata la sua accezione festiva: mangiano al banchetto che il Padre imbandisce per i figli che tornano a lui.
Se riascoltiamo con attenzione il racconto lucano della parabola del Figliol Prodigo, ci accorgiamo che il figlio che ha sperperato con prostitute i beni paterni è roso dai morsi della fame: è disposto a mangiare un pane da servo, pur di sfamarsi, egli non crede abbastanza all’amore paterno; il suo andare al padre gli rivelerà un volto inatteso: lo attende un banchetto di festa al quale siederà come uomo libero, come figlio.
Come rondini lui e noi stiamo migrando verso quel banchetto pasquale che ci svelerà un Volto paterno/materno di Dio che in Cristo ci ha riconciliati.