“Ma come ti sei conciato?”
(Dott.ssa Ivana de Leonardis – Consulente Familiare®)
Chi non ha mai detto qualche volta questa frase al proprio figlio adolescente o non l’ha quantomeno pensata incrociandone qualcuno per strada. E chi non se l’è qualche volta sentita dire dai propri genitori quando era un ragazzo/ragazza? Chi, avendo figli oggi maggiorenni, non ha deprecato la moda di qualche anno fa dei jeans a vita bassa che lasciavano scoperto tutto, dalla pancia alla biancheria intima? Oppure chi non ha detto al proprio figlio: “Ma se devo spendere 100 euro per comprarti un jeans tutto tagliato, non posso tagliartene io uno che costa 20 euro?”.
Battute a parte, oggi ho scelto di aprire un focus su un aspetto importante e costitutivo dell’immagine: il modo di vestirsi degli adolescenti o, per dirla con linguaggio attuale: l’outfit o dress code.
Il modo di vestirsi è uno dei diversi canali espressivi della personalità. Di tutti e a qualunque età.
C’è chi preferisce uno stile, chi un altro. Chi sceglie di adottarne uno personalissimo e chi invece ama seguire le influenze del momento.
Nei ragazzi, però, lo stile è qualcosa di ancora più significativo. Per gli adolescenti è fondamentale vivere il senso di appartenenza al gruppo dei pari e l’abbigliamento è uno dei tratti distintivi di questa appartenenza. Quando gli adulti giudicano i ragazzi per la loro omologazione (“sono vestiti tutti uguali”, “se li vedi in gruppo non li distingui gli uni dagli altri”) in realtà stanno semplicemente sottolineando il loro bisogno di sentirsi in-group (ossia dentro il gruppo), anche attraverso l’adozione di uno stesso stile di abbigliamento.
Per parlare di questo tema, ho scelto di dare voce innanzitutto ai ragazzi attraverso un sondaggio in forma anonima che ha riscosso un certo successo, al punto che in pochissimo tempo sono arrivate 68 risposte di ragazzi di età compresa tra i 14 e i 20 anni.
Non si tratta certamente di una indagine di enorme portata, ma è sicuramente un campione rappresentativo.
Sintetizzando le loro risposte, emerge che circa il 70% dei ragazzi intervistati concorda sul fatto che una persona non vada giudicata dall’aspetto esteriore. Arriva chiaro l’invito a non fermarsi alle apparenze, a non esercitare giudizi o pregiudizi affrettati, soprattutto verso le ragazze (in una risposta si riportava l’esempio dello stereotipo: ragazza scollata = ragazza poco seria).
D’altro canto, i ragazzi sono anche perfettamente consapevoli dell’effetto “prima impressione” e anche loro dichiarano che a volte si fanno un’idea di qualcuno sulla base di come è vestito, salvo poi smentirla o confermarla quando ne hanno una conoscenza più approfondita.
Il tema del giudizio è particolarmente sentito, visto che il 50% dei ragazzi si è sentito giudicato per il modo di vestirsi, a volte anche solo attraverso uno sguardo. In 1 caso il giudizio si è trasformato addirittura in bullismo e quindi particolarmente sofferto.
Le parole ricorrenti di questo gruppo di risposte, sono state: il l’importanza di superare giudizi o quantomeno evitare che diventino etichette, vissuti su di sé o diretti ad altri.
Parlando di sé, in buona sostanza i ragazzi cercano soprattutto un abbigliamento pratico e che li faccia sentire a proprio agio, indipendentemente se corrisponda o meno ad un preciso stile di tendenza (Dark Academy o stile gang per citarne alcuni), per quanto sicuramente prendano spunto anche da quello. Su tutto, vince il gusto personale, ciò che a loro piace in quel momento e che nella maggior parte dei casi li rappresenta perché esprime ciò che sentono, anche semplicemente a livello emotivo attraverso la scelta di colori che rispecchiano il loro umore.
Solo in 2 casi è emerso che la persona sta ancora cercando un proprio stile identitario oppure che quello adottato non lo/la rispecchia perché è condizionato dai gusti della mamma.
Circa il look di personaggi come i Mâneskin o Fedez, la stragrande maggioranza dei ragazzi (circa l’80%) pensa che quel modo di vestirsi non rappresenta solo abiti di scena (anche se un po’ caricati), ma esprimono un modo di essere anche fuori dal palco. Ancor più precisamente, pensa che esso rappresenti un linguaggio del corpo, molto più incisivo e diretto di tante parole, “un modo per lanciare dei messaggi sulla società che sta cambiando”, per abbattere delle barriere dei pregiudizi e un invito ad accettare le persone cosi come sono, se loro si sentono bene in quegli abiti.
Solo una piccola percentuale di ragazzi intervistati (meno del 10%) pensa che sia un mix, ossia un po’ abiti di scena e un po’ un modo di essere o di pensare e solo 1 risposta indica questi personaggi come cattivi esempi per i ragazzi.
Ritorna quindi il tema della libertà di essere se stessi, l’accettazione di un mondo che cambia, il bisogno di non standardizzare. E tutto questo detto, appunto, anche attraverso il corpo e la sua immagine.
Colpisce, poi, che l’80% dei ragazzi ritenga assolutamente giusto che in certi luoghi (scuola, lavoro, oratorio/chiesa) venga richiesto che ci si vesta in un certo modo.
La parola più utilizzata nelle risposte è: rispetto. Rispetto per il decoro del luogo, per le persone che vi si trovano o per l’istituzione che quel luogo rappresenta, meglio ancora se il rispetto della regola corrisponde a qualcosa di sentito interiormente come giusto (“dovere morale”, come è stato definito) piuttosto che semplice adesione passiva a qualcosa di imposto. Certo, i ragazzi non nascondono che a volte le limitazioni sono eccessive e molto rigide, ma sostanzialmente vengono ritenute sensate e necessarie, anche per evitare che una mancanza di regole dilaghi in eccessi di libertà. Una piccola annotazione, riportata in più di un commento, riguarda poi il fatto che le maggiori restrizioni vengono richieste alle ragazze (ad es. non indossare la gonna o gonne troppo corte a scuola). Il tema è particolarmente delicato perché tocca un’altra problematica a cui i ragazzi si sono dimostrati sensibili e cioè che il richiedere ad una ragazza di vestirsi rispettando un determinato canone non è solo per una regola di decenza, ma anche per impedire “sguardi” o commenti eccessivi.
Infine, il giudizio della famiglia è quello a cui i ragazzi danno maggiore importanza.
Quali spunti di riflessione possiamo ricavare da questa intervista ai ragazzi? Mi piace lasciarne un paio:
Il primo è la dualità degli adolescenti che passa attraverso il bisogno di appartenenza da un lato e il desiderio di definirsi e distinguersi dall’altro, tra l’avere uno sguardo aperto al cambiamento e il riconoscimento delle regole.
Il secondo è che “custode” principale di questa dualità degli adolescenti rimane sempre la famiglia, in cui lo scontro generazionale, quando si presenta, può diventare occasione di incontro e di dialogo se il giudizio di un “ma come ti sei conciato/a?”, diventa invece la buona domanda: “che significa tutto questo per te? Raccontami”.
dott.ssa Ivana de Leonardis – Consulente Familiare®