L’abito nuziale veste il cuore non la pelle
(Commento al Vangelo di don Gianni Carozza)
Che significa l’abito nuziale di cui parla la parabola di Matteo di questa domenica? C’è un’interpretazione da escludere con fermezza.
Se rappresentasse una condizione di onestà morale e quindi di merito che sarebbe necessario avere per essere accolti nella sala del banchetto, i pubblicani e le prostitute non avrebbero alcuna speranza di partecipare alla festa.
Sarebbe un ripetersi della mentalità farisaica secondo la quale la salvezza è riservata alle persone che ne sono degne perché l’hanno meritata con la loro condotta onesta.
Piuttosto, a proposito della veste nuziale, non è possibile non pensare a quelle parole che il padre del figliol prodigo rivolge ai suoi servi: “Presto, portate il vestito più bello e rivestitelo”.
Sembra di capire che nella casa del padre a noi non è richiesto di portare il vestito più bello, ma di lasciarci rivestire del vestito più bello.
In altre parole, ciò che ci è richiesto è di lasciarci amare.
Ma c’è un altro riferimento interessante: è quello che si trova in una lettera dell’apostolo Paolo dove si legge questa esortazione: “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo”(Rm 13, 16).
La veste nuziale è dunque il Signore Gesù.
E indossare la veste nuziale vuol dire sentire che la nostra vita non può rimanere separata da lui, perché è lui il senso, la luce, la speranza, la consolazione più grande.
Da questa certezza dovrebbe nascere una preghiera dolce e appassionata:
“Signore Gesù, rivestimi di te, della tua giustizia e della tua pace, della tua tenerezza e della tua comprensione fino al giorno in cui, sebbene raccattato ai crocicchi delle strade, avrò la fortuna, immeritata, di essere ammesso a una festa incomparabile, al di là di ogni attesa”.