“La tragedia è quando Gesù rimane un’idea, perché allora non amiamo niente”
(Commento al Vangelo di don Simone Calabria)
Dicevamo domenica scorsa che il profeta parla e agisce in nome di Dio, e profetizzare è un compito difficile. Il profeta Amos si trova in mezzo a due ostilità: da una parte, Dio che gli affida il compito di profetizzare al suo popolo; dall’altra parte, il sacerdote di Betel, che lo rifiuta e lo manda via. «Vattene, veggente, ritirati nella terra di Giuda, là mangerai il pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno». Amos davanti a tali minacce affronta apertamente il suo avversario, ricordandogli che la sua missione viene da Dio: «Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un mandriano (pastore) e coltivavo piante di sicomoro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge…mi disse: Va, profetizza al mio popolo Israele».
S. Paolo ci ricorda della nostra chiamata alla salvezza, che Dio da sempre ha fatto in Cristo Gesù per tutti, senza distinzione alcuna. Anche noi, come Amos e gli Apostoli, siamo stati scelti per qualcosa di grande.
“Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due”. Gesù li chiamò e li mandò. In questi due verbi (chiamare e mandare) si può dire che è racchiusa tutta l’identità del discepolo e di ogni comunità cristiana.
Il Concilio Vaticano II afferma con chiarezza questa missione affidata a tutta la Chiesa: “la Chiesa peregrinante è per sua natura missionaria…e ad ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di diffondere, per quanto gli è possibile, la fede”.
Il cristiano pertanto è anzitutto un chiamato, un convocato da Dio.
Non si diviene cristiani per una scelta autonoma; lo si diventa in risposta (ovviamente libera) ad una chiamata che ci precede. Sì, c’è un amore che sta prima della nostra risposta. Così Gesù oggi vuole mettere la Chiesa, ognuno di noi, al riparo da ogni forma di protagonismo.
Qual è il nostro punto di forza, anche quando le cose non vanno come vogliamo? “È il ridestarsi della persona”.
Vuol dire “essere liberi e non costretti dall’esito”.
Significa che quello che è importante come persona non è tanto l’essere adeguato, ma l’esserci con la convinzione che noi siamo chiamati a rispondere ad una sola domanda: che cosa stimiamo?
A che cosa teniamo mentre facciamo le cose? Quello che conta è che il cuore sia libero, attaccato a quello che ama, quello che conta è crescere nell’amore a ciò che amiamo. Altrimenti saremmo sempre ricattati dalle circostanze. Come facciamo a non arrenderci quando le circostanze vanno in senso diverso da come vogliamo noi? Per stare in ogni situazione occorre una motivazione giusta e il motivo giusto è che noi amiamo qualcuno.
La tragedia è quando Gesù rimane un’idea, perché allora non amiamo niente e l’amore è solo un viavai, un intreccio di stati d’animo.
Non è possibile amare la vita a caso. Se non c’è il Destino, se non c’è qualcosa o qualcuno a cui ci possiamo affidare, allora non ci coinvolgiamo con niente e con nessuno.
Quello che facciamo ha valore solo se è in funzione di qualcosa di più grande.
Noi non siamo insieme per un’idea, ma per un legame affettivo, perché abbiamo incontrato Qualcuno che ci ha voluto più bene di quanto noi ne vogliamo a noi stessi.
S. Anselmo ci ricorda: «Fammi gustare attraverso l’amore quello che gusto attraverso la conoscenza».
Noi siamo ricchi solo di due cose, anche nelle circostanze più terribili: la fede, che coincide con qualcosa che raggiungiamo non con un ragionamento, ma con un incontro che ci ha toccato il cuore: Gesù, e la nostra compagnia, cioè la concretezza del mistero per cui l’altro ci interessa perché c’è. L’altro vale per quel che è e non perché è bravo.
Se Cristo non c’entra, tutto questo diviene immaginario. Chiediamo al Signore di essere veri annunciatori del suo Vangelo con disponibilità, umiltà, pazienza. Amen.