La comunione tra Dio e l’assemblea, l’alfa e l’omega di ogni liturgia
L’assemblea, il cuore della Liturgia
Dio nel suo essere uno e trino “è” comunione e vive di comunione e in questo vivere scorge la bellezza di una umanità che vive e agisce in comunione fraterna perché figli dello stesso Padre. Dio, «vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4). La fede è un atto personale ma non isolato: nessuno può credere o vivere da solo (Catechismo Chiesa Cattolica 166)
Nella liturgia siamo chiamati a vivere in maniera profonda e radicata questa dimensione in anima e corpo e con tutti i nostri 5 sensi (vista, udito, tatto, olfatto e gusto) che divengono gli strumenti che ci immergono nella comunione assembleare della liturgia.
Nella porta fisica della chiesa (in CCC 751:” …la parola Chiesa significa “convocazione”, assemblee del popolo; CCC 1144 “Nella celebrazione dei sacramenti, tutta l’assemblea è «il liturgo»”) si materializza l’affermazione di Gesù “In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore” (Giovanni 10.9). Varcata quella porta cielo e terra divengono un tutt’uno: un tu per tu tra Dio e il suo popolo. Un popolo che non è come quando ci si riferisce a un’entità astratta” Tutti e nessuno” quanto piuttosto una comunione di tanti, “uno per uno”, ciascuno pensato e generato prima che fosse tessuto nel grembo della propria madre e di cui persino i capelli sono contati uno ad uno (neanche un padre biologico è capace di tanto ma solo Dio padre ha questa capacità certosina di amare i suoi figli)
Ogni parte della messa, ogni parola e gesto è un vivere un dialogo vivo e vero tra Dio e il suo popolo. Basta prendere un foglio della messa per accorgersi di come il “noi” e Dio (il “Tu”) padre dominano avvolgono l’intera liturgia. Anche la preghiera che ci ha insegnato Gesù stesso “Padre Nostro (non mio o tuo ma nostro, di tutti noi, qualcuno ci stringe in un legame assimilabile a quello di sangue che unisce due fratelli…).
L’unico momento in cui non si parla al plurale ma al singolare è la professione di fede: “Io credo…” quasi a dire “Io personalmente scelgo di far parte di questo popolo perché…”. Ma anche se la professione è personale sono chiamato ad una adesione pubblica contemporanea, identica a quella pronunciata dagli altri membri dell’assemblea. “Aderiamo insieme ma ciascuno nei suoi modi: cambiano i timbri di voce, i toni, gli atteggiamenti corporei…”.
La preghiera dei fedeli dovrebbe essere la massima espressione di questa dimensione assembleare: innalzare a Dio le richieste di quella particolare “Porzione di popolo”.
“Il congedo da parte del sacerdote costituisce, pertanto, un ultimo ammonimento a vivere ciò che si è celebrato… affinché porti frutti nella vita cristiana di ogni giorno.” (Da Ufficio delle celebrazioni liturgiche del sommo pontefice). L’essere chiamati a portare frutti si può tradurre in una chiamata alla santità.
Non a caso il CCC in 946 afferma:“Che cos’è la chiesa se non l’assemblea di tutti i santi?”
E tutto passa attraverso la stessa porta da cui si è entrati e dal quale si è chiamati a portare anche fuori quanto vissuto durante la celebrazione.