Il significato della odigitria donata alla parrocchia di San Giuseppe
SAN SALVO. Ecco il significato della Odigitria donata dalla famiglia Fabrizio alla parrocchia San Giuseppe in occasione del centenario della nascita di Manfredi Fabrizio (LEGGI).
“Colei che indica la Via”, questo significa il termine Odigitria.
C’è attesa, c’è generatività, ma vi è anche tanta TENEREZZA, per questo si è partiti a contemplare l’icona a partire proprio dall’Inno del Magnificat. Avvolta nel mantello di porpora scura bordato d’oro, non esercita, come nell’arte occidentale, un ruolo di protezione nei riguardi di Cristo, ma lo presenta agli uomini, intercedendo al tempo stesso presso di lui. Tramite la mano, in un gesto ricchissimo, esprime al tempo stesso il ricevere e l’offrire: Maria Indica Colui che è Via, Verità e Vita e, nel contempo, pare abbracciarlo, in un gesto di profonda dolcezza. L’espressione è seria, piena di serenità regale; lo sguardo si posa direttamente sullo spettatore, creando così una relazione circolare tra i tre: io, pregando Maria, sono chiamato da Lei a rivolgermi a Colui che salva, il quale mi rimanda con il gesto della mano alla Vergine che è Madre e può intercedere presso Dio, cosa che già fa con il gesto e lo sguardo.
A noi, infatti, la Vergine Guarda con benevolenza e serietà, quasi sofferta, per la sorte che dovrà subire il Figlio. Una sorta di architettura spirituale presiede alla composizione dei volti. La cupola irrealisticamente magnificata della testa, sede dello Spirito che domina gli istinti sul corpo, annuncia la somiglianza divina della creatura umana. Persino la simbologia cromatica possiede un significato spirituale: il blu dell’umanità di Maria, dato dalla veste, è rivestita dalla natura divina purpurea che l’incarnazione le ha concesso con il suo sì. Ciò rende visibili le due nature uguali e distinte, umanità e divinità, che costituiscono non solo Cristo, in quanto Vero Dio e Vero Uomo, ma la nostra stessa natura, alla quale siamo chiamati con il nostro sì. La presenza delle stelle dorate sul capo e sulle spalle sta ad indicare la verginità di Maria, la sua purezza illibata prima, durante e dopo il parto.
Ella Intercede presso Dio, sì, ma al contempo ci presenta un Cristo non Bambino: come nelle altre raffigurazioni, il bambino Gesù non è mai un Bambino, è già l’Uomo dei Dolori.
GESÙ viene sempre presentato nelle icone con le fattezze da adulto, ciò è volto a sottolineare come il Mistero della Natività sia indissolubilmente legato a quello della Passione e Resurrezione; quindi, è Dio che già adulto viene nel mondo, e non è semplicemente il Bambino del Presepe: è un volto già Trasfigurato. Indicato, per questo, con le iniziali IC-XC (Iesus Christòs), che ci dicono che si tratta di Dio, il Figlio di Dio, la Seconda Persona della Trinità. Che sia in posizione eretta, benedicente, con vesti intessute d’oro (richiamo alla regalità e divinità), recante il rotolo della Parola, la Madre lo indica, mostra, guarda sempre con quella dolcezza severa, carica di patimento di chi è già a conoscenza dei dolori che il figlio dovrà patire per Salvare l’umanità, per salvare me. Per questo lo sguardo di Maria ci interroga: io ti indico la strada giusta, ti mostro Chi è Colui che Salva, e tu cosa vuoi Fare con Lui, di LuiIl modello della Madre di Dio è ripreso dalla Vergine di Cosenza, opera databile intorno al XIII secolo. La scelta di questo modello è stata pensata in relazione all’unicità che il gesto ce compie racchiude in sé: nell’indicare abbraccia, protegge non solo il Bambino che, in piedi poggiato su di una lastra a finto marmo subito preannuncia la vittoria sulla morte attraverso il dolore della Croce, ma abbraccia l’intera comunità dei credenti che la contemplano e soprattutto tu che le stai dinanzi.
Ecco il motivo di questa scelta. Perché l’icona è prima di tutto un “luogo di presenza in cui la realtà rappresentata si irradia verso colui che la guarda con atteggiamento aperto, teso a ricevere. Infatti, sono il personaggio o le scene rappresentate che escono dalla finestra o culla (come viene chiamata la cornice) svolgendo un’azione attiva su colui che la contempla; e tale azione è dello Spirito Santo. Prende vita un movimento contrario a ciò che avviene in presenza di un normale dipinto, dove chi osserva tende ad entrare nel mondo rappresentato per partecipare alla scena. Per questo l’icona può essere capita ed accolta solo nella fede, avendo in essa la sua origine ed il suo significato profondo. C’è differenza tra arte sacra e arte religiosa: l’arte religiosa può essere paragonata all’arte profana, l’immagine che l’artista mette sulla tela nasce dal suo cuore, dalla sua sensibilità, egli rappresenta con genialità realtà suggerite dal suo mondo interiore. L’iconografo invece esprime contenuti che vengono dati dalla fede della Chiesa e li rappresenta seguendo canoni tramandati dalla tradizione. Per chiarire meglio il senso dinamico dell’icona dal punto di vista antropologico, storico e spirituale dobbiamo mettere a confronto l’icona e la Sacra Scrittura, poiché è certamente la Parola (cioè la Tradizione viva, orale e scritta della Chiesa) la strada privilegiata che manifesta l’incarnazione di Dio: il “Novum Christianum”.(Da “Icona Parola Preghiera” di Maria Grazia Mussi).
Tutto questo è amplificato dalla presenza di quattro santi che sono chiamati, da tempo, a dare protezione alla città di San Salvo. I santi, nelle icone, sono coloro che si sono resi conformi alla vita di Cristo quando erano in vita, e per questo ora sono nella pienezza, giunti al compimento della loro esistenza, vivono di quell’Oltre al quale tutti siamo chiamati in virtù del nostro battesimo. Per grazia essi sono divenuti, così, fratelli della fede che ci hanno preceduto e che ora intercedono presso il padre per tutti noi. Per questo motivo i santi sono “scrivibili”: il compimento della Parola di Dio si è fatta carne, si è impressa nella loro vita. Loro sono prova vivente e testimoni della Verità.
Qui raffigurati, ad accompagnare la Madre di Dio, vi sono SAN VITO e SAN SALVO, i santi che davano il nome all’antica originaria abbazia cistercense dove oggi sorge la Parrocchia di SAN GIUSEPPE, anch’esso presente, assieme a SAN VITALE in quanto patrono della città.
Si è pensato, quindi, di coinvolgere nell’icona tutti questi santi che in diverse forme sono entrati e tuttora fanno parte della vita della comunità.
SAN VITO (in alto a sx) è raffigurato come un adolescente. Non si hanno dati storicamente accertati sulla sua origine, tuttavia la tradizione lo vede nascere in Sicilia da padre pagano. Secondo una passio del VII secolo il fanciullo siciliano Vito, rimasto orfano di madre, fu affidato alle cure della nutrice Crescenzia e dal pedagogo Modesto, che lo fecero convertire alla fede cristiana. Dopo aver operato molti miracoli, Vito venne arrestato insieme ai due tutori dal preside Valeriano su richiesta del padre. Torturato molteplici volte e gettato in carcere egli non rinnegò mai la propria fede. I tre vennero liberati miracolosamente da un angelo e si recarono in barca in Lucania per continuare il loro apostolato. La leggenda vuole che, durante il viaggio, i tre fossero nutriti da un’aquila che portava loro cibo e acqua finché sbarcarono alla foce del Sele sulle coste del Cilento. Acquistata sempre maggior fama di guaritore presso il popolo dei fedeli, fu condotto a Roma dove venne perfino supplicato dall’imperatore Diocleziano di liberare il figlio dal demonio, ma, ottenuto il miracolo, l’imperatore li fece arrestare e li sottopose a torture; vennero immersi in calderoni pieni di pece bollente ma rimasero illesi, furono quindi gettati in pasto ai leoni ma le bestie divennero mansuete. Furono infine torturati nella carne, ma vennero liberati da degli angeli che li riportarono presso il fiume Sele, dove morirono per le sofferenze il 15 giugno dell’anno 303.
Raffigurato con la palma del martirio, presente nella decorazione del nimbo, san Vito reca in mano la croce gemmata, simbolo di una fede e una vita completamente aderente a Cristo, finanche nelle sofferenze: egli ha dato la vita per Cristo. L’altra mano aperta sta a simboleggiare l’accettazione alla volontà di Dio. Egli ha lo sguardo fisso su di noi, a indicarci il vero modello da seguire per potere un giorno dimorare e contemplare Dio con lui.
SAN SALVO, presumibilmente identificabile con il vescovo di Alby, in Francia, era monaco benedettino, originario della Campania e vissuto, si ipotizza, tra l’871 e il 920. Stando ad alcune fonti, pare sia lui il fondatore dell’originario Monastero di San Salvo (dove ora sorge la chiesa parrocchiale di San Giuseppe), che diede il nome alla città. Veritiero o meno, il fatto che il suo nome sia legato a questa comunità lo rende degno di nota. Raffigurato con abiti benedettini, il santo regge il libro della Regola di San Benedetto, dalla quale attingerà linfa per la Vita: “Ora et Labora” ci ricorda che nel quotidiano di ciascuno la preghiera, Ora, deve trovare il primo posto, in ogni attività quotidiana. La stola che lo incornicia rimanda al suo stato di vescovo, e la mano aperta è, anche per lui, l’accettare ciò che il Signore vuole fare con lui.
SAN GIUSEPPE, colui dal quale la chiesa prende il nome. La figura iconografica di San Giuseppe differisce molto nelle tradizioni Orientale e Occidentale. Il dibattito si concentra in particolare sull’attribuzione della paternità di Cristo e sul rischio di “compromettere” la Verginità di Maria. Per questo motivo la figura di questo santo nella tradizione orientale è minimizzata (senza denigrazione), e lo possiamo notare in icone quali la “Natività di Cristo”, nella quale San Giuseppe è “relegato” in un angolo, nell’intento di sottolineare il racconto delle Sacre Scritture e l’insegnamento della Chiesa, secondo la quale Cristo è nato da una Vergine. Lo stesso in altre raffigurazioni, quali “La Presentazione di Gesù al tempio” o “La fuga i Egitto”. San Giuseppe non è mai al centro della scena, ma lontano e con il capo chino, è il Custode di Cristo e della Vergine. Non un Capo Famiglia, ma il Custode ordinato dalla Divina Provvidenza, ruolo accettato con umiltà (per questo il capo chino). Questa caratterizzazione tipicamente ortodossa di San Giuseppe caratterizza i Padri orientali, nonostante la preoccupazione della difesa della perpetua verginità di Maria sia la medesima dei Padri occidentali. La differenza è che questi ultimi si preoccupano maggiormente per la persona del santo. Sant’Agostino d’Ippona, ad esempio, pur rilevando che “Giuseppe […] potrebbe essere chiamato il padre di Cristo, a causa del suo essere in un certo senso il marito della madre di Cristo[…]” qualifica quest’ammissione insistendo sul fatto che, nel loro rapporto sponsale, “non c’era connessione corporea”. E ancora afferma: “E a causa di questa fedeltà coniugale (cioè il loro celibato reciproco) essi sono giustamente chiamati „genitori‟ di Cristo (non solo lei come sua madre ma anche lui come suo padre, in quanto marito di lei), entrambi essendo nella mente e nel proposito, anche se non nella carne. Ma mentre egli era suo padre solo nel proposito, e l’altra sua madre anche nella carne, con tutto questo entrambi erano solo i genitori della sua umiltà, non della sua sublimità; della sua debolezza (2Cor, 13), non della sua divinità”. È in questo senso, dunque, che dobbiamo capire l’affermazione della Scrittura: “Ed [egli] stava loro sottomesso”, concernente il rapporto di Cristo con San Giuseppe e sua Madre.
In questo particolare caso, san Giuseppe è raffigurato dormiente, cosa inusuale nelle icone, dove i soggetti hanno sempre gli occhi aperti, ma normale se il brano di riferimento è legato ai sogni che San Giuseppe fa e che dicono la Fede con la quale il Santo, seppur colto da molteplici dubbi, accetta la volontà di Dio. L’aureola dice di quest’azione dello Spirito, come anche il segno del giglio, a motivo decorativo, indica Maria, e Giuseppe come Custode del dono preziosa fattogli da Dio. In questo lo ricalca il gesto la mano sinistra di Giuseppe che, mentre è addormentato, allunga il dito sino all’estremità del dito di Dio, una creazione, una generatività data dall’affidamento totale a Dio, nonostante i dubbi e il non capire.
Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa «Dio con noi». Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.”
SAN VITALE era un ufficiale dell’esercito romano sotto il dominio l’imperatore Diocleziano, nemico dei cristiani (2845-305 d.C.). Sposò Valeria ed ebbe due figli Gervasio e Protasio.
Scoppiata la persecuzione contro i cristiani, accompagnò, incoraggiandolo, il medico Ligure Ursicino condannato a morte. Ursicino venne decapitato e decorosamente sepolto dallo stesso Vitale dentro la città di Ravenna.
I persecutori per indurlo a rinnegare la sua fede cristiana adottarono torture feroci. Vitale venne arrestato, e dopo aver subito mille torture su ordine del giudice Paolini venne gettato in una fossa profonda. Il santo viene perciò raffigurato con l’armatura, tipica del militare, recante in mano la palma del martirio, e sempre, con la mano aperta, pronto ad accettare la volontà di Dio.
Infine una piccola nota: in basso, in corrispondenza centrale della Madre con il Bambino, è stato posto un rettangolo del medesimo marmo del sepolcro soprastante. All’interno due lettere simboleggiano la famiglia e un caro estinto: la morte non è vinta, e nell’attesa della Resurrezione della carne siamo chiamati a pregare per coloro che, avendo già compiuto il passaggio da questo mondo all’altro, se non lo sono ancora possano giungere presto nella dimora del cielo: questa è la Comunione dei santi, questa è la Chiesa di Cristo.
L’iconografa
Eleonora gemma Galbusera