Giulio Rocca, giovane morto nel 1992 prima di entrare in seminario
No alla carità, sì alla rivoluzione»: il messaggio trovato sul cadavere di Giulio Rocca, trentenne di Sondrio, è la sua sentenza di morte. Cronaca di una morte annunciata, dice qualcuno, perché da tempo lo si sa nel mirino di chi pensa che ai poveri non deve esser fatta la carità, perché così sono più arrabbiati per fare la rivoluzione.
Nasce nel 1962 in Valtellina, a Isolaccia Valdidentro, da una famiglia umile e molto religiosa, dalla quale si discosta fin da giovanissimo per la sua tendenza al bere e a far la bella vita. Più per voglia di nuove amicizie che per motivazioni condivise, a 16 anni partecipa ad un campo di lavoro organizzato dall’Operazione Mato Grosso e, poiché da cosa nasce cosa, entra addirittura a farne parte.
L’iniziativa è organizzata dal salesiano don Ugo De Censi, che propone ai giovani esperienze in Brasile di servizio e di condivisione con i più poveri, sostenute in Italia con il lavoro e la raccolta di rottami da rivendere per ricavare fondi. Va così a finire che anche Giulio, diplomatosi in Agraria, parte per il Brasile e gli bastano quattro mesi per fargli scegliere definitivamente i poveri.
Tornato nel 1985, riparte nel 1988, questa volta per il Perù, destinazione Chacas. Lavora nel «Taller don Bosco», il laboratorio in cui i ragazzi lavorano il legno e che sembra fatto apposta per lui, abituato a casa a bazzicare in un analogo laboratorio di suo fratello.
Partito ateo, così si autodefinisce, o almeno fortemente critico verso i preti e la Chiesa in generale, «scoprii, poco alla volta, altri valori che per me ora sono fondamentali, come il lavoro, il sacrificio, la ricerca di un senso vero per vivere e, in quest’ultimo anno, i valori religiosi», come scrive lui stesso.
Inutile chiedersi cosa realmente sia successo, semplicemente si può dedurre, com’è stato scritto, che per lui «l’amicizia nata sporcandosi le mani nei campi di lavoro; la provocazione di preti come P. Ugo; la condivisione con la fatica degli ultimi della terra, sono state il passaporto per incontrare il Cristo».
Per questo, alla vigilia della morte, può scrivere che «a trent’anni mi sembra che nulla abbia più valore che seguire Gesù, lo desidero tanto per riempire il vuoto che è rimasto in me but¬tando via tutto ciò che è inutile».
Va ad abitare nella casa parrocchiale di Jangas, 200 anime sulla cordigliera peruviana, con l’incarico, tra l’altro, di smistare gli aiuti che arrivano alla missione e di fare la giornaliera provvista di viveri al mercato di Huarez. Si distingue per il suo inseparabile cappello, i suoi jeans abbastanza frusti e i tipici sandali dei contadini delle Ande: francescanamente povero perché ormai ha fatto la scelta di «dare via», che è poi il messaggio dell’Operazione Mato Grosso.
«Dare via, dare ai poveri, aiutare gli altri, dando prima le nostre cose e il nostro tempo, poi sempre di più, fino a dare tutto, ma proprio tutto, fino a darsi completamente. Che vuol dire lasciarsi mettere in Croce». Lo scrive ad agosto 1992, quando ormai i suoi giorni si sono fatti brevi, anche se lui non lo sa.
È un anno importante nella sua vita, il 1992: il 23 giugno, dopo parecchio tempo che non si accosta ai sacramenti, chiede a padre Ugo di accompagnarlo in un cammino di vera conversione; a inizio settembre partecipa ad un ritiro, predicato da quest’ultimo, per chi ha intenzione di entrare in seminario; a fine mese, poi, ufficializza con una lettera al vescovo di Huarez la sua intenzione di voler essere prete, chiedendogli consiglio.
Ed è importante anche per i rivoluzionari di Sendero Luminoso, che si accorgono della sua presenza, perché troppo incisiva e, di conseguenza, scomoda. In pochi mesi lo vanno a trovare quattro volte, sempre ripetendogli come un ritornello: «Voi siete contro la rivoluzione, la vostra religione è l’oppio dei popoli», oppure anche «Con la carità che fate siete un freno alla nostra rivoluzione”. Una volta dice loro in faccia, apertamente: «Noi siamo contro la violenza, sia che venga da voi o dalla polizia. Perciò, quando entrate in questa casa le armi non le vogliamo vedere…».
L’ultima volta, la sera del 1° ottobre 1992, entrano senza bussare, ovviamente con le armi in pugno e prelevano Giulio, che è ritrovato cadavere alcune ore dopo, crivellato di colpi. Nel foglietto che gli trovano in tasca, macchiato di sangue, ha scritto a caratteri cubitali, in stampatello, la parola «Jesus» e accanto la lista della spesa del giorno dopo: 4 uova, 10 cipolle, 20 zucche…, «una specie di sintesi della sua vita: l’amore per Cristo e la concretezza dell’amore per i poveri».
Autore: Gianpiero Pettiti