Giovanni: “Ecco perché ho scelto il convento”

Voglio essere felice” è il grido che risuona nel cuore di ogni ogni donna e uomo ad ogni età e in ogni suo agire. Ed è lo stesso grido e desiderio viscerale che ha Dio per ciascuno di noi. Assodato questo fine essenziale, questo obiettivo che è l’alfa e l’omega di ogni essere umano sorge spontanea la domanda: “Come posso essere felice?”.

“Vivere appieno la mia vocazione alla felicità significa vivere appieno la mia vocazione di figlio di Dio e di cristiano per essere pronto a morire a me stesso in ogni cosa per soddisfare quel desiderio di essere pienamente felice” – è questa la risposta di Giovanni Martinelli un giovane di 25 anni che il 20 luglio 2024 (leggi), insieme ad altri otto giovani, nella basilica inferiore di San Francesco ha pronunciato la professione temporanea ovvero ovvero pubblicamente ha preso l’impegno di vivere secondo la Regola di San Francesco, in obbedienza, povertà, e castità. Nell’intervista Giovanni racconta come e perché ha maturato questa risposta/scelta così radicale.

Quando sei nato, quali erano i tuoi interessi da bambino e quali le tue scelte da ragazzo e da giovane?

Sono nato il 26 dicembre del 1998. Ero un bambino come tutti gli altri: amavo il calcio, la piscina, giocare a nascondino qui nella zona di Sant’Antonio a San Salvo con i miei amici. Intorno ai 5- 6 anni durante una crociera in famiglia ero rimasto dalla figura del capitano e avevo maturato il desiderio di percorrere anch’io quella strada per poter prendere il largo e passare da una meta all’altra. È rimasto il sogno di un bambino che mi ha accompagnato fino al tempo della scuola media dove ho invece maturato la passione per la natura e per la terra in particolare e ho scelto di frequentare l’Istituto agrario di Scerni in Abruzzo. Le materie che amavo e in cui riuscivo di più erano le materie scientifiche. Mi sono laureato in “Scienza della nutrizione” a Urbino perché penso che la cura del proprio corpo passa per ciò che mangiamo.

Quale era il tuo rapporto con Dio in questo tempo?

Molto marginale e distante: credevo che esistesse ma tra il credere razionalmente e il credere affettivamente c’è un mondo. La mia famiglia era cattolica ma non praticante. Nel 2008 mia nonna aveva bisogno di qualcuno che l’accompagnasse in pellegrinaggio a Lourdes e mia mamma si offrì e lì ebbe una vera conversione e cominciò a cercare di trascinare nella fede anche il resto della famiglia. L’anno dopo andammo tutti e quattro, mamma, papà e mia sorella Maila a Medjugorje. Anche se avevo solo dieci anni in una confessione che feci lì ebbi quasi una percezione fisica del sentirmi riconciliato con Dio. Ciò nonostante ancora avevo compreso le fondamenta di quella sensazione. Continuavo ad andare a messa tutte le domeniche con il pensiero “Male non fa, bene può essere“. Mamma e papà frequentavano un gruppo di preghiera di Gesù risorto a Petacciato e cercava di coinvolgere anche noi figli. Nell’età dell’adolescenza tutto mi stava stretto anche la fede, abbandonai anche il percorso scout che avevo iniziato a 8 anni ma una domenica sentii attraverso uno sguardo diretto di don Michele Carlucci che commentando il vangelo del giudizio universale sulla separazione delle pecore dalle capre di Matteo 25, 31-46, chiese “tu da che parte vuoi stare?” sentii questa domanda rivolta proprio a me. Me lo ricordo ancora: era il giorno di Cristo Re. E così accettai la proposta di mia madre e cominciai a conoscere un Dio come una persona concreta e non come una semplice entità astratta. Ma la mia vita aveva il suo percorso e arrivato il tempo dell’università maturai questa idea: “Se non incontro un gruppo fervente mi perderò”.

Qual è stata la vera svolta del tuo rapporto personale con Dio?

Era il 4 ottobre e in una pizzeria con degli amici di campus vidi un ragazzo che indossava una collana con un ciondolo di Naruto, un personaggio manga che a me piaceva in quel periodo. Lo avvicinai per fargli i complimenti per il ciondolo. Ci scambiammo il contatto Facebook e un giorno egli mi invitò a un buffet organizzato dalla pastorale universitaria. C’era un corridoio pieno di ragazzi gioiosi di stare lì con dei frati. E pensai “Ecco il Signore mi vuole ancora con sé”.

Hai mai avuto una storia con una ragazza?

Sì ed anche una bella storia solo che sentivo che non soddisfacesse il mio desiderio di spendermi illimitatamente per qualcuno. In fondo in ogni vocazione c’è un fondamento: trovare il modo migliore di amare. E io questo lo intravedevo in quei sacerdoti che si spendevano per Dio in maniera gratuita e senza riserve.

Quando è scattato il desiderio di diventare frate?

Anche se amavo frequentare il Consiglio e l’Assemblea Gioiosa del Fuci e vedevo fra Albino Tanucci (il mio padre spirituale), fra Andrea Cannuccia e don Daniele Brivio, spendere la loro vita non avevo neanche lontanamente pensato a questa prospettiva fino a settembre 2019. Ogni anno ero solito tornare a casa nel periodo estivo e prima di tornare all’università ero solito andarmi a confessare dal mio parroco di San Salvo. Don Beniamino Di Renzo dopo quella confessione mi invitò in canonica, mi raccontò la sua storia e mi chiese: “Come ti vedresti al mio posto?” D’istinto e senza pensarci risposi “Veramente mi vedrei più come frate che come prete”. Quella mia risposta mi lasciò una sana inquietudine: era una prospettiva che fino ad allora non avevo mai preso in considerazione e mi chiesi “Perché ho risposto così?”. Appena tornai a Urbino riferii di questa conversazione a don Albino e lui “Don Beniamino mi ha anticipato una cosa che anch’io ti volevo chiedere da tempo”. Ebbi così una sorta di conferma al mio istinto ma ancora mi decidevo. Volevo in qualche modo continuare a decidere da solo e pensavo: “Vabbè ora mi sto laureando casomai faccio prima la magistrale e poi vediamo”. Ma Dio sa sconvolgere ogni cosa. A uno dei tanti incontri della Fuci a cui partecipavo sentii forti queste parole “lascia tutto e seguimi”. Ogni vera scelta è un tuffo, un abbandono totale. Arriva marzo 2020 tempo del Covid. Tutti i miei amici erano tornati a casa ed io mi ritrovai solo nella mia stanza. I frati vedendomi solo mi chiesero se volevo andare a stare con loro. E così in una full immersion mi sono innamorato di quella vita comunitaria con Cristo come capofamiglia. Cominciai a vivere l’eucarestia ogni giorno e scoprii il suo ruolo centrale nel mio quotidiano. E da qui “Io voglio questo per essere felice”.

Quando l’hai detto alla tua famiglia, quali sono state le reazioni?

Ad Agosto 2020. Mio padre mi disse erano dieci anni che si aspettavano che da un momento all’altro avrei dato loro questa notizia. Loro mi hanno poi ricordato dei piccoli flash: quando andammo a Medjugorje io ero piccolo e mi soffermai su una vetrinetta di abiti liturgici ed esclamai senza sapere cosa fossero “Che belli questi vestiti!”. E ancora nel periodo delle superiori amavo andare con mia madre andare a fare le pulizie nella chiesa di San Giuseppe: avevano spostato l’orario apposta per aspettare che tornassi da scuola.

Cosa significa per te indossare oggi l’abito dei frati minori conventuali?

È un segno molto bello ed è nel contempo una testimonianza di una scelta radicale perché ogni scelta d’amore è una scelta radicale.

Cosa ti aspetti dalla tua vita ora?

A livello pratico a settembre andrò a Padova per iniziare gli studi teologici e nel contempo vivere nel concreto quel desiderio di felicità piena diventando un autentico testimone della gioia che scaturisce dall’essere un uomo di Dio.

(foto in copertina dalla pagine Facebook della Basilica di san Francesco d’Assisi nel giorno della sua professione di fede)

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