Gesù rispetta la fatica e i dubbi; rispetta i tempi di ciascuno
Commento al Vangelo di don Simone Calabria
At 2,42-47; Sal 117; 1Pt 1,3-9; Gv 20,19-31
“Credere senza vedere”
I discepoli erano chiusi nel Cenacolo per paura di essere uccisi dai Giudei. È un momento di disorientamento totale: l’amico più caro, il Maestro che era sempre con loro, con cui avevano condiviso tre anni di vita, non c’è più, è chiuso in un sepolcro scavato nella roccia. Ogni speranza è finita e in più c’è la paura di essere riconosciuti e di fare la stessa fine del Maestro.
“La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù”.
Venne Gesù a porte chiuse. In quella stanza, dove si respirava paura, alcuni non ce l’hanno fatta a restare rinchiusi: Maria di Magdala e le donne, Tommaso e i due di Emmaus. A loro, che respirano libertà, sono riservati gli incontri più belli e più intensi.
“Tommaso, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri Discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Tommaso è un prezioso compagno di viaggio, come tutti noi, che vogliamo vedere, toccare con mano le cose della vita, che non ci accontentiamo del sentito dire, ma vogliamo una fede che si incida nel cuore e nella vita.
Se consideriamo bene la vita che facciamo e che ci circonda, ci accorgiamo che esiste questa insidia, questa prova, questa incredulità. Quante volte pretendiamo di vedere subito i risultati, di avere delle sicurezze, delle certezze che vadano bene, che coincidano con i nostri bisogni.
Non accettiamo di dipendere dal Signore, di vivere attaccati a Lui, di nutrirci di Lui, della sua Parola, e quindi, ci facciamo coinvolgere da una mentalità mondana della società che pensa solo a giudicare in base a fatti accaduti.
Disse bene Papa Benedetto XVI ad una Via Crucis: “Accanto a tutti i nostri limiti, c’è o no qualcosa di più grande del peccato? C’è qualcosa che ha il potere di perdonare persino il più grave dei peccati e di trarre il bene anche dai mali più terribili?
Il punto fondamentale è che “Dio si è commosso per il nostro niente, per il nostro tradimento, per la nostra meschinità. Ha avuto pietà per me». È questo che annuncia la Chiesa nel mondo: la commozione di Dio per la nostra meschinità, per il nostro non credere. Se non si parte da lì, dal riconoscere questa commozione di Dio nei nostri confronti non si capisce più nulla. Impazzisce tutto.
“Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse…Poi disse a Tommaso: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!”.
Gesù rispetta la fatica e i dubbi; rispetta i tempi di ciascuno e la complessità del nostro credere; non si scandalizza, si ripropone. Gesù si espone a Tommaso con tutte le ferite aperte. Pensavamo che la risurrezione avrebbe cancellato la passione, richiusi i fori dei chiodi, rimarginato le piaghe. Invece no: esse sono il racconto dell’amore scritto sul corpo di Gesù con l’alfabeto delle ferite, incancellabili ormai come l’amore stesso.
La Croce non è un semplice incidente di percorso da superare con la Pasqua, è il perché, il senso. Metti, tendi, tocca. Il Vangelo non dice che Tommaso l’abbia fatto, che abbia toccato quel corpo. Che bisogno c’era?
“Mio Signore e mio Dio”.
La fede se non contiene questo aggettivo “mio” non è vera fede, sarà tutt’altro. “Mio” dev’essere solo il Signore, “mio” non di possesso ma di appartenenza: il mio Signore, io appartengo a Lui.
Gesù disse a Tommaso: “beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”.
Ma allora, a cosa dobbiamo credere se vogliamo vivere? Dobbiamo credere fino in fondo all’insegnamento di Gesù, alla comunione tra noi, all’eucaristia, alla preghiera. Amen.