Gesù come irruzione di tenerezza
In dialogo con i fratelli e sorelle separati, divorziati, e divorziati risposati
Rubrica a cura di Don Giovanni Boezzi delegato dai sacerdoti della Zona Pastorale di Vasto per la Famiglia
Carissimi, il messaggio di Gesù è radicalmente radicalizzato dall’annuncio dell’infinita bontà divina. Secondo Mt 10,29-31 la tenerezza divina è presente in tutte le realtà e negli avvenimenti della storia. La fiducia che si ha in Dio trasfigura la vita, facendo superare ogni ansia per l’oggi e il domani: «Guardate gli uccelli del cielo… il Padre vostro celeste li nutre… Osservate come crescono i gigli del campo… Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi?» (Mt 6,26-30).
L’amore tenero di Dio non si arrende neppure di fronte alle nostre fughe; è tenace come quello del Padre misericordioso di Lc 15,11-32 (Parabola del figliol prodigo) di fronte a cui si pongono i due figli, chiamati entrambi alla conversione e a riconoscere la loro filialità. La parabola attribuisce ampio spazio alla vicenda del figlio minore: ci parla del suo peccato e ci descrive l’illusione di cui egli è vittima quando pensa di acquistare una libertà che già possedeva e che invece perde. Tuttavia, il centro della parabola non è il figlio, ma il padre. Il miracolo non consiste anzitutto nel pentimento del figlio minore, ma nella tenerezza del padre che perdona e accoglie il figlio nella sua casa come se niente fosse accaduto; cosa che il figlio non si sarebbe mai aspettato.
Ecco il prodigio straordinario: che la tenerezza di Dio sia tanto grande da annullare il peccato dell’uomo. E, d’altra parte, è proprio questa grazia misericordiosa che rivela tutta la profondità del peccato del figlio, il quale aveva cessato di vedere nel padre colui che l’amava veramente e si era rifiutato di lasciarsi amare. E proprio il Vangelo ci mostra questo padre, mentre scorge il figlio «quando questi era ancora lontano» (v. 20). Quel giorno egli era là sulla porta ad attendere il figlio, con la speranza di vederlo apparire in lontananza; quel giorno come sicuramente tutti i giorni precedenti, per mesi e anni; un’attesa silenziosa, lunga, sofferente; un amore più forte della morte, che continuava a sperare contro ogni speranza. Sembra di vederlo questo padre, non appena vede il figlio, in lontananza, la commozione lo assale, un nodo di pianto gli sale alla gola e si mette a correre, come impazzito di gioia, si getta al collo del figlio, lo abbraccia, lo bacia, lo tiene stretto a sé, continuando a singhiozzare per la gioia. La parabola non si cura di descrivere la gioia e la sorpresa del figlio; erano cose troppo ovvie. Ciò che è straordinario, ciò che meritava davvero di essere ricordato è la gioia del padre, perché essa rivela qualcosa della profondità della tenerezza di Dio. Al figlio sono ridate tutte le sue insegne (il vestito lungo, l’anello con lo stemma di famiglia, i sandali) perché egli è ormai reintegrato, a pieno titolo, nella casa paterna; è figlio a tutti gli effetti. E si fa festa. L’esperienza del figlio minore è, sotto questo aspetto, sconvolgente. Cambia radicalmente la sua vita; lo fa passare dall’adolescenza alla maturità; un itinerario racchiuso nei verbi partire (v. 13) e tornare (v. 20): parte da casa ricco, spavaldo, sicuro di sé, pieno di sogni; torna a capo chino, lacero, umiliato, con la coscienza della sua colpa. Ma il commento alla parabola sarebbe incompleto se non si rilevasse anche l’atteggiamento del padre nei confronti del figlio maggiore: «Egli si indignò, e non voleva entrare» (v. 28); appare evidente il contrasto tra la gioia commossa del padre e l’ira sdegnata del fratello più grande. Quest’ultimo non ha fatto l’esperienza della tenerezza paterna e si dimostra terribilmente chiuso, gretto di carattere. Al padre che lo supplica di entrare enumera tutti i suoi meriti, lamentandosi di non aver ricevuto abbastanza.
Il Dio del vangelo ci appare come un Padre che rifiuta il fariseismo. E la parabola, nel condannare l’atteggiamento assunto del figlio maggiore, vuol mostrare la falsità di certi atteggiamenti dei farisei che si lusingavano di essere «giusti», perché non trasgredivano nessun comandamento della legge (v. 29) e potevano perciò giudicare il fratello. Il Dio di Gesù Cristo rifiuta questo tipo di religiosità: egli guarda al cuore. Il messaggio era fin troppo evidente. La persona umana può sprecare la sua vita in due modi, dice in sostanza la parabola:
- fuggire da Dio, sottraendosi alla responsabilità dell’essere figlio, non riconoscendo di essere amati e distruggendo la parte più nobile di sé;
- non saper apprezzare il dono di essere figli e rimangono a casa senza gioia, senza sentirsi felici in niente, anzi coltivando uno spirito di rivendicazione per un capretto mai avuto.
È questo il lieto annuncio di Gesù: un Dio di bontà, un Dio di letizia, che vuole la felicità dei suoi figli: vuole che tornino a lui, quanti se ne fossero allontanati, e desidera che rimangano nella casa in armonia e gioia. Ed è questa la forza della tenerezza del Padre celeste: una tenerezza in grado di risuscitare i due figli, se si aprono a essa, e farli diventare capaci di tenerezza l’uno per l’altro e verso la vita. Non più spirito di rivalsa o di rivalità, ma atteggiamento di rispetto e fraternità sincera, amante e perdonante. Noi possiamo dimenticare Dio, ma Dio non dimentica noi, come ricorda il vecchio parroco del romanzo di Cronin Anni verdi a un adolescente che dichiara di essersi deciso ad abbandonare Dio: «Robert, tu puoi non cercare Dio, ma egli ti cercherà. E ti troverà, mio caro ragazzo, sì, ti troverà alla fine».