“Fare” la Parola di Dio
(Commento al Vangelo di don Giovanni Boezzi)
L’amore per gli altri è forse il più bel racconto che Gesù ha fatto di Dio. Un amore narrato e, nel contempo, agito e incarnato fino al dolore dei chiodi, fino all’annullamento di sé sulla croce dove la morte si è fatta dono di vita per tutti. Questo amore ci unisce ancora oggi gli uni agli altri e ci lega stretti a Cristo, unica vite, proprio come i tralci che alla vite devono restare attaccati perché al di fuori di questo legame non avrebbero nessuna possibilità di vita (Gv 15,1-8).
Questo amore diviene oggi più che mai comando da agire e da custodire per restare in Cristo e “fare” la sua Parola pienamente. Si tratta di un comandamento antico, perché pronunciato da Gesù fin dall’inizio, ma anche nuovo, perché ultimo e definitivo, perché in esso trova sintesi e compimento tutta la Legge.
Non si tratta di proiettare sull’altro me stesso, il mio io, la mia storia, la mia cultura. Il criterio per capire l’amore dell’altro non sono più io, ma Cristo: solo così posso amare l’altro al di là di me stesso, al di là della mia storia, della mia cultura, della mia carne; solo così posso amare, nell’altro, la sua storia.
Il comandamento dell’amore non è qui un precetto morale. Non vengono imposti obblighi ma si svelano semplicemente le “conseguenze” di questo amore: chi ama Dio non può non amare il fratello.
Non si tratta insomma di dottrine ma di atteggiamenti esistenziali che prendono spunto dall’amore di Cristo. Un amore che procede direttamente dal Padre e che –grazie all’azione dello Spirito Santo – va dal Padre al Figlio, dal Figlio a noi e, tramite noi, agli altri, per ritornare infine nuovamente al Padre come frutto di fede e testimonianza dell’uomo che ama e che quotidianamente “incarna” così la Parola nella sua vita. In questa circolare e straordinaria sinergia di amore e conoscenza l’uomo non è chiamato ad esser servo ma amico: viene così ribaltata la logica antica della distanza e sottomissione che definiva il rapporto tra la divinità e l’uomo. Gesù non può pensare ad altro rapporto uomo/Dio che a quello proprio dell’amicizia, tema presente nell’AT già in quel Dio della Genesi che chiama l’uomo a godere della bellezza del creato e a condividerla insieme. Amici di Gesù vuol dire essere chiamati a divenire responsabilmente partecipi del progetto di vita che Dio ha per il mondo, conoscerne la missione e il significato («tutto ciò che ho udito da Padre l’ho fatto conoscere a voi»).
Non si tratta, perciò, di imporsi degli obiettivi: “devo” amare l’altro e “devo” camminare nella luce non odiando il fratello. Il vangelo di oggi ci libera da questo assillo moralistico e intellettuale e ci dice con altrettanta forza e chiarezza che l’amore per gli altri viene innanzitutto da Dio perché Dio stesso è Amore.
La questione è semmai un’altra: da come amo l’altro, capisco anche quanto e come amo Dio. Per essere in comunione con Dio occorre assumere gli stessi atteggiamenti di Dio: questo vuol dire fare il comandamento, ovvero fare la parola di Dio. Vuol dire assumere un tratto di Dio. Il primo passo, in realtà, non è amare ma lasciarsi amare da Dio. Per amare bisogna fare prima l’esperienza dell’essere amati, l’esperienza, cioè, del discepolo.
Noi amiamo perché Dio ci ha amati. Perdoniamo perché Dio ci ha perdonati. Se non riesco ad amare il fratello è perché non mi lascio amare da Dio, perché l’amore è da Dio (1Gv, 4,7). Così scriveva S. Agostino:
Ama e fa ciò che vuoi.
Se taci, taci per amore,
se parli, parla per amore,
se correggi, correggi per amore,
se perdoni, perdona per amore,
sia in te la radice dell’amore,
perché da questa radice non può nascere che amore.