Dio è il “Padre” paziente, datore di libertà e sarto di fraternità
(Commento al Vangelo di don Andrea Manzone)
«Un uomo aveva due figli: e chi la sente per la centesima volta, è come se fosse per la prima volta». Aveva ragione Charles Peguy: questa parabola è profonda quanto lo è la paternità di Dio che in essa si disvela. Confusi dal titolo tradizionale – il figliol prodigo – abbiamo smarrito il protagonista di questa storia, il Padre. Un Padre che sembra aver fallito nella sua paternità: tutti i sogni del figlio minore si ambientano lontano da lui, mentre il figlio maggiore è sempre lì a fare tutto a puntino per acquistarsi un po’ di benevolenza paterna.
È un Padre incompreso, che si fa fatica ad amare. Forse, lo si comprende solo da lontano: quando il figlio minore ottiene la libertà sospirata, con il portafogli pieno e una vita davanti e si accorge troppo tardi di aver troncato le radici della sua umanità, avendo per compagni i porci. Eppure, questo Padre accetta di essere messo da parte e allo stesso tempo permette al figlio di “brancolare nel vuoto”.
Consegna al figlio le sostanze/eredità di questo patricidio simbolico lasciandolo però libero, senza ricatti morali ed emotivi. Sta a guardare: guarda il figlio che sbaglia, in continuazione. Non lo va a riprendere tra i porci, ma lo attende; se l’avesse ripreso, il figlio sarebbe tornato di nuovo tra i porci. Egli attende che il figlio completi questo terribile processo egocentrico, sperando che prima o poi giunga la nostalgia della relazione interrotta, che cioè abbia fame, quella vera.
Il ritorno del Figlio è un ritorno atteso, nonostante tutto. Il padre lo attende guardando da lontano; il figlio torna con la coda tra le gambe, ma senza un minimo segno di pentimento. Ha un atteggiamento dimesso, torna da colpevole. Ma il Padre non lo lascia nemmeno parlare: non vuole che il figlio dia voce al suo senso di colpa. Il Padre torna a farlo bello, come lui lo vedeva.
Il figlio maggiore, che ha impostato la sua vita sull’equazione tra figliolanza e “fare qualcosa”, non può entrare in quella casa (la quale sarebbe una bella immagine della Chiesa) in cui la norma è la gratuità e la prassi è la festa: conosce il vero volto del padre quando, dopo un rigurgito acido di risentimento, continua ad essere chiamato «figlio» (Lc 15,31).
Il figlio minore forse fuggirà di nuovo, non sappiamo se il maggiore entrerà a far festa: in questi preziosi versetti, come nella nostra vita cristiana, l’unica certezza è il Padre, datore di libertà, amante della festa, sarto di fraternità, invincibile campione di attesa e pazienza amorosa.