Che cos’è dunque il talento, se non la nostra stessa vita? Abbiamo due opzioni: giocarcela oppure seppellirla anzi tempo
Il vangelo con cui si va pian piano chiudendo l’anno liturgico porta con sé un grande equivoco di interpretazione da parte nostra. Molti infatti ascoltando la parola “talenti” pensano che ad essere distribuiti dal padrone siano, fuor di parabola, le doti personali di ciascuno, che vanno messe a frutto e investite e su cui verremo alla fine verificati.
Probabilmente questa non è la migliore interpretazione. Proviamo a darne una alternativa partendo dalla fine del racconto. L’ultimo servo, quello che ha ricevuto un solo talento (una spettabilissima cifra corrispondente a quasi seimila giornate di lavoro!), ha sepolto quanto ricevuto, cioè lo ha trattato come qualcosa di morto.
Ma perché ha fatto questo? Giustificandosi, egli descrive chi è – ai suoi occhi – il padrone, ossia un uomo spietato, anzi: raccogliendo dove non ha seminato lo etichetta quasi come un ladro! Di fronte a un ritratto del genere, il servo può avere un solo atteggiamento: “Ho avuto paura”, e la paura come è noto tende a pietrificare tutto ciò che invade.
Come abbiamo detto, siamo al termine dell’anno liturgico e i brani di queste domeniche (avvento compreso) tratteranno della manifestazione gloriosa di Cristo alla fine dei tempi, “che verrà nella gloria”. Il padrone della parabola, “che torna dopo molto tempo”, è Dio, che viene a regolare i suoi conti con l’umanità.
I primi due servi hanno compreso la vera natura di questo Dio rivelato da Gesù: egli è un padrone buono, che si fida dei suoi servi fino ad affidargli cifre di grandissimo valore, che ama osservare come i suoi servi si ingegnano per mettere a frutto quanto consegnato.
È un meccanismo di vita: il bene si moltiplica, fruttifica, crea un sano utile, che si manifesta infine nella gioia: “Prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
L’ultimo servo è il credente che non ha conosciuto la magnanimità di Dio, ma che lo ritiene un padrone spietato, ingiusto (perché a me un talento e agli altri di più?), ladro di felicità e di gioia, abituato a trafficare solo staticità, a trattare solo con ciò che è morto (il talento sepolto) e privo di vita, gioia e amore.
Il servo diventa inutile non perché ha ricevuto meno degli altri, ma perché dalla sua esistenza non ha tratto nessun guadagno, nessun frutto di vita. È inutile perché non si è giocato, si è tirato indietro dal gioco della vita che chiede di spenderci senza misura e senza paura di confronti.
Che cos’è dunque il talento, se non la nostra stessa vita? Abbiamo due opzioni: giocarcela nella sfida della nostra vocazione oppure seppellirla anzi tempo, condannandoci all’esilio dalla gioia.