Amarsi nell’imperfezione, la sapienza nella crisi
In dialogo con i fratelli e sorelle separati, divorziati, e divorziati risposati
Rubrica a cura di Don Giovanni Boezzi delegato dai sacerdoti della Zona Pastorale di Vasto per la Famiglia
Carissimi, “amarsi nell’imperfezione” è un tema suggestivo soprattutto per la prospettiva che apre. Per accennare a questo tema mi sono fatto aiutare da una storia poco nota che si trova nel secondo libro dei Re, conosciuta come la storia della minestra risanata. Prima di continuare è meglio leggere il brano: «Eliseo tornò in Gàlgala. Nella regione imperversava la carestia. Mentre i figli dei profeti stavano seduti davanti a lui, egli disse al suo servo: «Metti la pentola grande e cuoci una minestra per i figli dei profeti». Uno di essi andò in campagna per cogliere erbe selvatiche e trovò una specie di vite selvatica: da essa colse zucche agresti e se ne riempì il mantello. Ritornò e gettò i frutti a pezzi nella pentola della minestra, non sapendo cosa fossero. Si versò da mangiare agli uomini, che appena assaggiata la minestra gridarono: «Nella pentola c’è la morte, uomo di Dio!». Non ne potevano mangiare. Allora Eliseo ordinò: «Portatemi della farina». Versatala nella pentola, disse: «Danne da mangiare alla gente». Non c’era più nulla di cattivo nella pentola». Questa è una storia per tempi di carestia. La narrazione allude non soltanto ad una carestia di beni, ma anche ad una carestia di senso, di parole.
A me sembra interessante, per parlare di “imperfezione”, porre attenzione a questo strano miracolo della minestra risanata; un racconto che sembra dirci che in tempi di carestia, di difficoltà, perfino il profeta – che siamo abituati a vedere come l’uomo delle parole nette, che obbligano a scegliere – diventa saggio e non si permette sprechi per non lasciare a pancia vuota l’umanità. Qui il miracolo non è la moltiplicazione dei pani, ma è semplicemente l’arte culinaria, la capacità di rimediare ad una minestra riuscita male. La situazione è ben delineata: sono tempi di carestia in cui anche i discepoli intorno al maestro sperimentano la fame. Come si fa a nutrirli? Il maestro dice: andate a procurarvi gli ingredienti per preparare insieme una zuppa. E la risposta dei discepoli è diversificata: c’è il discepolo che rimane in attesa; c’è quello che sceglie solo le bacche che conosce, ma c’è anche quel discepolo che osa superare il limite e prendere delle bacche che non conosce.
Il risultato è devastante perché raccoglie, involontariamente, delle bacche velenose. È il rischio di chi osa avventurarsi per nuovi sentieri. Se ne riempie la veste sperimentando, finalmente, l’abbondanza, ma si tratta di un’abbondanza di veleno.
La verifica tuttavia, può essere fatta solo a posteriori; una volta cotta, è unanime il giudizio da parte di quelli che l’assaggiano: c’è la morte nella minestra! È immangiabile! Ci aspetteremmo che Eliseo intervenga pretendo la minestra e gettandola via. E invece il profeta non si permette uno spreco che, in tempi di abbondanza, sarebbe stato legittimo. Egli non getta e neppure trasforma magicamente la minestra; prova semplicemente a correggerla con un ingrediente comune, quotidiano, come della farina. Un ingrediente che permette di rendere valido il lavoro di tutti e la minestra diventa mangiabile, capace di nutrire coloro che patiscono la carestia, una minestra per molti.
Questa storia ci ricorda che, innanzi tutto, si corregge aggiungendo e non sottraendo. Io credo che noi, nello sperimentare l’imperfezione, nel momento della crisi affettiva, normalmente tendiamo a fare il contrario: quando qualcosa non va, cerchiamo di eliminare, di togliere quello che non funzione. Il problema è che, spesso, quello che non va non può essere tolto in una coppia. A volte quello che non funziona è proprio la nostra umanità, il nostro carattere, così radicato nella vicenda affettiva. Intendo dire che il nostro sguardo è spesso uno sguardo moralistico che di fronte alle difficoltà ci porta a dire: così non si può andare avanti, dobbiamo eliminare quello che non va. Invece la storia della minestra risanata sembra suggerirci che nell’imperfezione, nella carestia, nella vulnerabilità è importante provare a correggere, aggiungendo qualcosa a quello che non va, imparando l’arte della correzione. Questa storia fa leva sulle capacità di ognuno di ascolto e di lettura e ci dice anche: tu puoi correggere la situazione, anche là dove tu dai un giudizio mortale sulla tua storia. Insisterei su questo aspetto perché noi sperimentiamo la carestia affettiva e le difficoltà delle coppie, però tendiamo sempre a non prenderci la responsabilità di discernere, prima di tutto, cosa non va per poi provare ad aggiungere, a modificare, correggendo quello che non funziona.
Insieme al giudizio secco, l’altra tentazione è quella di rivolgersi agli esperti. Questo ricorso agli esperti produce una specie di cultura della delega in cui desideriamo che siano gli altri a risolvere i nostri problemi. In realtà gli altri non li possono risolvere per noi. Possono accompagnarci, suggerirci percorsi, interagire con noi, facilitarci il dialogo nella coppia, ma i problemi li deve affrontare e risolvere chi li ha! Ritornando alla storia della pentola, questa ci dice che di fronte al dono prezioso dell’amore noi non possiamo permetterci di buttare via tutto; è una storia così seria da rendere paziente perfino il profeta che siamo abituati a sentire parlare con toni radicali.