“Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia…”
In dialogo con i fratelli e sorelle separati, divorziati, e divorziati risposati
Rubrica a cura di Don Giovanni Boezzi delegato dai sacerdoti della Zona Pastorale di Vasto per la Famiglia
Carissimi, continuiamo ad ascoltare ed in questo caso a leggere la testimonianza di Emanuele, oggi ci parlerà della scelta di restare fedele e della grazia del perdono. «Per ogni cosa c’è il suo momento (….). C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante (…). Un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare (…), un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci» (Ecclesiaste 3).
E forse in quel momento, mai come prima, ho iniziato a comprendere davvero allora il significato di quelle parole che avevo pronunciato il giorno del nostro matrimonio: «Io accolgo te, come mia sposa. Con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita». Quei giorni, che non avrei mai pensato che potessero arrivare, erano il momento del dolore, della malattia dell’anima. Sentivo di non poter sopravvivere senza amore, ma poco a poco iniziavo a realizzare che non lo dovevo andare a cercare altrove: ciò che in apparenza mi era stato strappato, l’amore di mia moglie, continuava a vivere nel nostro matrimonio, che proprio là dove sembrava finire forse stava invece trovando una sua profonda nuova dimensione. Si ricomponevano i frammenti dell’amore umano in un’unità più alta, un’unità da nozze eterne, vive e custodite nel cuore stesso di Dio. La fedeltà e il perdono non mi sono più sembrate allora mete irraggiungibili, troppo superiori alle mie forze. Ma la conseguenza e l’effetto del sentirmi amato prima da Dio, perdonato da Dio, che restava fedele e presente nel nostro matrimonio, dando senso e gioia alle mie giornate, iniziavo a trovare qualche senso nelle parole del salmo: Il suo amore è per sempre (Sal 135). Tutto ciò, però, non toglieva ancora tutte le mie paure umane. Non sarei impazzito, mi chiedevo: si può, può un uomo vivere così? Mai prima avevo preso in considerazione un’eventualità anche lontanamente simile. Mi sentivo fatto per la vita coniugale, di coppia, e non certo per restare solo. Ho detto allora al Signore: “Pensaci tu”. E la stessa castità mi è parsa, a quel punto, come ciò che poteva salvarmi dallo scivolare verso il basso, dall’abbruttirmi. Prima, e per molto tempo, l’ho subita, poi l’ho scelta.
La mia scelta di fedeltà è stata a lungo legata alla speranza di un ricongiungimento. Fino a quando mia moglie non mi ha detto che aspettava un bambino. Non pensavo che avrei potuto ripiombare nel dolore acuto dei primi momenti della separazione. Non sopportavo la vista del pancione di mia moglie. Sì, mia moglie. Nella mia scelta di restarle fedele, non avevo mai messo in dubbio che l’avrei sempre chiamata così, nonostante tutto. Ma ora? Mi sentivo umiliato, di nuovo profondamente ferito. Da quel momento, non mi sono più sentito autorizzato a sperare il nostro ricongiungimento. Ora una nuova vita aveva diritto ad avere una famiglia unita. Quello era il punto di non ritorno. Ho realizzato che la mia scelta era chiamata a purificarsi da ogni aspettativa umana, e a trasformarsi davvero in “sì per sempre”, senza aspettarsi nulla in cambio, in un “sì fino alla fine”. Da allora, una lenta e progressiva guarigione, fatta di piccoli gesti portati quasi con timidezza, o perfino inizialmente con un certo timore. Una ricostruzione a partire dal frammento di bene che, tra tutte le macerie che ci eravamo lasciati dietro, era rimasto; come sempre, inevitabilmente, anche nel matrimonio più ferito resta qualcosa da portare in salvo, tra queste senz’altro i figli. Ricordo la prima volta che mia moglie mi disse: “sei un bravo papà”. Quanto mi colpì questa frase, così naturale e forse scontata in una famiglia unita, che non potei non associare ai giudizi ingiusti e crudeli che ci lasciavamo addosso i primi tempi dopo la separazione, misurando la distanza da quelli, che mi parve immensa, e mi lasciò colmo di stupore e di gratitudine.
Ricordo quando a mia volta riuscii a dirle: “sei proprio una brava mamma”. Non erano parole di circostanza, ma davvero riuscivo dopo tanto tempo a riconoscere che, si, era ed è davvero una brava mamma. Prima, vi avrei probabilmente aggiunto, tra me e me: “nonostante tutto”. Da quel momento non più: nessuna ombra mi oscurava più la vista e il cuore. Finalmente, riuscivo a riconoscere il bene che proveniva dall’altra parte. A distanza di anni dalla nostra separazione, anche grazie al cammino comune con fratelli e sorelle che hanno fatto la stessa scelta di fedeltà al matrimonio-sacramento, ho sentito a mia volta di dover chiedere perdono a mia moglie. Perdono, io che credevo di non aver avuto responsabilità in ciò che era accaduto, perdono per le colpe che non avevo mai riconosciuto. Lì, al solito bar, “campo neutro” dove eravamo soliti incontrarci per le usuali “comunicazioni di servizio”, tipiche dei genitori separati. Non se lo aspettava, non erano i soliti discorsi sulla programmazione dei weekend alternati o l’andamento scolastico, che in quegli ultimi tempi occupava quasi completamente i nostri dialoghi. Mi ascoltava in silenzio, gli occhi un po’ lucidi.
Il giorno dopo, mi ha inviato tre lunghi sms consecutivi. Parole che mi porterò sempre nel cuore, che fanno parte della nostra storia d’amore, che superano gli ostacoli del tempo e di una situazione che non può più essere cambiata. E che non sono solo scritte nella memoria di silicio del mio cellulare, ma – ne sono certo – sono già scritte in Cielo.
(fine terza parte)