Maria: “Dopo il tumore di mio figlio, mi sono accorta che avevo tutto nella mia vita”
La sofferenza segna e insegna. Questa è la storia di Maria D’alessandro, una semplice mamma che ha sperimentato il dolore della malattia di un figlio e oggi da testimonianza di come questa esperienza l’ha segnata.
Mi racconti un po’ di te?
Sono la seconda di cinque figli nata a Fresagrandinaria, un piccolo paesino del chietino. Subito dopo le scuole medie mia mamma di mandò da una sarta per imparare il mestiere: bastò poco per appassionarmi al taglio e al cucito. Mio marito Donato era un collega di lavoro di mio fratello e si interessò a me per una foto di famiglia mostratagli.
Un giorno ci venne a trovare e per me fu amore a prima vista. Il 4 marzo del 1972, quando io avevo solo 18 anni, ci siamo sposati e trasferiti a San Salvo. Dopo un po’ cominciai ad avere problemi di salute. Un giorno stavo così male che mio marito, mi portò al pronto soccorso di Termoli e lì dovettero operarmi di urgenza perché ero piena di cisti ovariche: stavo rischiando di brutto.
Il ginecologo mi disse: “non ti preoccupare anche se tutti gli altri medici ti diranno che non potrai avere figli sicuramente li puoi avere.” Infatti così è stato in ogni parola. Nel 1974 inaspettatamente è arrivato Angelo e dopo tre anni Luciano. Due gravidanze vissute in maniera opposta, la prima nove mesi a letto e con tante preoccupazioni e la seconda molto più serena. Continuai a portare avanti il lavoro di sarta e di insegnante di corsi di taglio e cucito perché mi consentiva di gestire tranquillamente anche la famiglia.
Grazie a una locandina lasciata in giro per far conoscere i miei corsi, ho incontrato Mirella Giardinelli, un’allieva a cui dopo il secondo corso di taglio ho proposto di collaborare con me. È sempre stata la calma personificata, io le dico che non si sente neanche camminare. Quando ci siamo conosciute eravamo entrambe mamme di due bambini piccoli e della la stessa età.
Tuttora per me lei non è un’amica ma più di una sorella. Il mio primo figlio in età adolescenziale ebbe un epifisiolisi e per due mesi dovette stare completamente ingessato dal collo in giù. Dopo qualche anno Luciano, da sempre appassionato di calcio cominciò ad avvertire un dolore a una gamba.
Tutti i medici del circondario mi dicevano che non aveva niente, poi a un certo punto non ci siamo più fidati e l’abbiamo portato all’ospedale di San Giovanni Rotondo e lì la triste sentenza: mi dissero che si trattava di un osteosarcoma, un tumore al quarto stadio che non dava nessuno scampo e non c’era possibilità neanche di fare chemio. Per avere un altro parere andammo al Rizzoli d Bologna: c’era un intero reparto di ragazzi con tumore. Della camerata di mio figlio solo lui è ancora vivo! A sedici anni subì il primo intervento ma gli lasciarono la gamba. Restò per diverso tempo in coma farmacologico. Per due anni sempre sotto chemio e camera iperbarica a Ravenna. In quel periodo per solidarietà con Luciano, mio marito e l’altro figlio si fecero calvi. Dopo un po’ la malattia si ripresentò e gli dovettero amputare la gamba e passati i fatidici cinque anni il tumore lo attaccò al polmone. Dopo l’intervento e tutte le cure oggi grazie a Dio è vivo.
Come mamma, dove hai trovato la forza per affrontare tutto questo e darne anche a tuo figlio?
Io dico sempre che questa esperienza ha rivoluzionato il mio modo di essere. Prima ero una donna facilmente irascibile e a volte anche litigiosa, dopo questa esperienza sono diventata l’esatto opposto. Sono entrata nell’ottica che quando si può aiutare gli altri lo si deve fare. È cambiato completamente il modo di percepire la vita e ho imparato a dare più importanza alle cose che veramente valgono. Durante questo calvario ho incontrato tantissime persone meravigliose che ci sono state accanto in dieci mila modi. Te ne racconto solo alcune. Mirella, nonostante portasse avanti il nostro lavoro da sola divideva con me i suoi guadagni. All’ospedale di Ravenna c’erano medici e infermieri che si prodigavano in ogni modo non solo da un punto di vista medico ma soprattutto umano. Lì ho conosciuto una volontaria che si chiamava Maria Baroncelli che dopo la morte del marito per un tumore si dedicava anima e corpo a questi malati. Tantissime volte ci ospitava anche a dormire a casa sua non solo me ma anche gli amici che venivano a trovare Luciano. Era tutto per tutti. Don Andrea Sciascia, sapendo della passione di Luciano per la Lazio, entrò in contatto con suor Paola, la storica tifosa della Lazio e mentre Luciano era ricoverato in ospedale, quando la Lazio segnò il goal, fecero annunciare al telecronista “Questo goal lo dedichiamo a Luciano ricoverato all’ospedale di Ravenna. Forza Luciano che ce la farai.” E non si limitarono all’annuncio in televisione ma lo vennero anche a trovare. Incontrammo così anche i dirigenti della squadra e suor Paola. Dopo questa esperienza oggi posso dire che nella vita ho trovato tutto anche a livello pratico. Chiedevo sempre aiuto alla Madonna Addolorata. È come se Dio mi avesse accompagnata in ogni momento e provveduto a tutto soprattutto nei momenti più dolorosi.